Articolo precedentemente pubblicato su Edu INAF
Sono invecchiato.
Me ne rendo conto non solo grazie alla mia carta di identità che riporta la data 9/5/1968, ma anche registrando tanti altri indizi sparsi nel mio piccolo mondo personale.
Uno di questi è che, guardando Martina, incontrandola per caso mentre va nello spazio, quando si aggrappa a un asteroide o nel momento in cui decide di scrutare il cosmo alla ricerca di pianeti extrasolari, mi viene spontaneo ripetere ciò che i vecchi parenti e amici dei miei genitori mi dicevano quando ero bimbo io.
Si tratta di una serie di formule colloquiali, sempre le stesse, la cui reiterazione obbligata, dopo saluti e convenevoli, colmava vuoti imbarazzanti e rassicurava tutti assegnando e sottolineando i ruoli di genitore, parente, ospite, nipote, … dei presenti:
“Ti ho visto nascere!”
“Eri piccolo così (la mano, distesa orizzontalmente a dita unite, taglia l’aria all’altezza quando del ginocchio, quando del fianco), invece ora guarda come sei diventato!“, frase, quest’ultima, che sottintende la presenza dell’aggettivo “grande“. Qui la mano viene levata velocemente verso l’alto e lo sguardo di chi parla la segue quando, a pensarci bene, basterebbe indicare/guardare la reale altezza del bimbo cresciuto.
Basterebbe, ma si sa: l’iperbole, specie a sud, continua a esercitare su tutti un fascino irresistibile…
Ecco, guardo Martina Tremenda e mi vengono in mente le stesse parole; le stesse formule; gli stessi gesti che, nella mia testa, il mio autoritratto dice e compie di fronte all’immagine della bimba astronauta.
In fondo è per me normale immaginare simili scene: io Martina l’ho vista nascere davvero!
Sì, perché a partire dall’idea generale, in parte contenuta nel nome “Martina” e nell’appellativo “Tremenda” che ne avrebbe dovuto sintetizzare il carattere – informazioni che mi furono consegnate da Laura Daricello e Stefano Sandrelli e che provenivano dall’ideale ecografia di routine compiuta alle loro fantasie prima della nascita della “loro figlia” – disegnandola, io quella bimba l’ho resa reale, anche se bidimensionale.
Se preferite, quindi, adottando diciture più moderne che riflettono cambi epocali nel nostro modo di vivere in società, la famiglia allargata di Martina prevede l’esistenza di un genitore 1, un genitore 2, un genitore 3 e un genitore 4. Insomma: è una bambina di comunità, ecco.
Il genitore 1 è Stefano Sandrelli (INAF-OABrera). È stato lui a creare il carattere di Martina Tremenda quasi un anno prima che io le dessi un’immagine. Ve lo racconterà lui in un suo prossimo intervento.
I genitori 2 e 3 sono – in ordine alfabetico – Laura Daricello e Rossella Muscolino (INAF-OAPa). Io sono il genitore 4 e all’epoca lavoravo all’INAF-OABO. Guardando l’immagine di Martina si potrebbe quindi usare un’altra frase classica: “Tutta (uguale alla fantasia di) suo padre! Il quarto.”
In realtà, l’attuale Martina assomiglia sì alla mia fantasia, ma difficilmente potrebbe essere connessa ai miei tratti somatici, anche se non è sempre stato così. È venuto infatti il momento di confessare che di rappresentazioni di Martina ne esistono almeno due e la prima versione di cui presto vi dirò in qualche modo mi assomigliava di più dell’attuale.
Quella inizialmente immaginata da Laura Daricello, doveva avere le fattezze di Sabrina Masiero, una nostra collega e amica che ha curato buona parte dei testi del libro Astrokids e che qui saluto pubblicamente.
L’idea di Laura prendeva origine dal fatto che Sabrina in quel periodo aveva da poco vinto una borsa per occuparsi di divulgazione presso il Telescopio Nazionale Galileo – l’osservatorio italiano che ospita il nostro telescopio ottico più grande, posizionato sulla caldera del vulcano dell’isola di La Palma, alle Canarie – e il suo comprensibile entusiasmo per una simile avventura umana e intellettuale aveva colpito così tanto Laura e Rossella da far loro pensare che l’esile figura di Sabrina potesse servire da modello per Martina. Insomma, nelle loro intenzioni avremmo avuto non tanto Martina, quanto “Sabrina Tremenda“!
Purtroppo – Sabrina non me ne voglia! – l’idea non mi piacque affatto.
Forse si tratta di qualcosa che accade a chiunque, ma di sicuro succede a chi disegna, scolpisce, suona, danza, …: quando un progetto “ti prende“, a) non puoi proprio sopportare che ti vengano suggerite delle idee creative (odio essere ritenuto solo l’esecutore materiale di idee altrui) in quanto b) il cervello traduce immediatamente le parole che ti vengono dette in immagini, suoni, gesti, movimenti, …
Nel caso di Martina, andò proprio così e la immaginai all’istante come una specie di moderna Pippi Calzelunghe: magra, slanciata, con le lentiggini, molto sbarazzina, sempre vestita in tuta rossa e con le treccine (da giovane avevo un debole per le ragazzine con le treccine. Ora invece ho un debole per le donne… con le trecce).
Il suo alter ego, il suo interlocutore, una figura spesso che spesso si accompagna ai protagonisti della letteratura mondiale e molto utile allo sviluppo di un intreccio narrativo, immaginavo sarebbe stato il suo pallone da basket di marca Spalding. Un pallone parlante, quindi – un classico giocattolo transizionale che trova illustri predecessori nella coperta di Linus, nel piano di Shroeder, nel dinosauro di George, noto come fratellino della più nota Peppa Pig… -, che all’occorenza, con un potente rimbalzo spaziale, si sarebbe anche trasformato in un fantascientifico mezzo di trasporto per compiere lunghi viaggi nello spazio. Qui di sicuro il ricordo dell’immagine più nota del barone di Münchhausen in volo a cavalcioni su una palla di cannone avrà giocato il suo ruolo, ma all’epoca non me ne resi affatto conto.
In ogni caso, non mi sento certo colpevole di plagio: dopo i poemi omerici, sono convinto che sia estremamente difficile, se non addirittura impossibile, dire qualcosa di davvero nuovo. Forse, per poterlo fare, dovremo attendere di colonizzare nuovi posti nello spazio profondo che, con geografie esotiche e situazioni conseguentemente imprevedibili, ci imporranno di ripensare tutta l’arte del narrare e i suoi topoi, ma al momento sono profondamente convinto che più che togliere a Mercurio il caduceo per regalargli un cellulare non possiamo fare…
Tornando alla prima versione di Martina, l’idea a qualcuno piacque – l’ho scoperto a posteriori; molti, tra i pochi che l’hanno vista, mi dicono: “sai che preferivo la prima versione?” – e a qualcun altro no.
Vinse il fronte del no: volevano un personaggio che avesse un carattere “spaziale” più smaccato e così nacque la Martina che oramai molti di voi conoscono.
Oltre quindi ad averla vestita con una tuta da astronauta che di sicuro aiuta il lettore a collocare la nostra sullo sfondo di ambientazioni spaziali, le ho sistemato i capelli usando ancora le trecce, anche se stavolta esse vanno a disegnare una classica stella a cinque punte.
Capelli rossi e una stella a cinque punte.
Va a finire che la mia nostalgia per tutto ciò che ha caratterizzato la mia infanzia, finanche la cronaca di quei famosi “anni di piombo” resa particolarmente “frizzante” dalle “Brigate Rosse” e dal loro celebre simbolo, si fa sentire anche in questo…
Mi rendo conto solo ora che, una volta che mi fu bocciata l’idea della prima Martina col suo pallone multitasking (amico, sapiente e mezzo di trasporto) – un’idea alla quale confesso di essere stato molto affezionato – sostituito in questa funzione da “genio“, il suo computer sapientone col quale Martina ogni tanto nel libro colloquia, la figura dell’alter ego non mi ha più intrigato: lo deduco dal fatto che esso non compare in nessuna delle mie numerose illustrazioni presenti nel libro Astrokids. Un analogo disamoramento è quello che deve aver colpito anche i miei committenti. Lo affermo in quanto ricordo che nel periodo in cui lavoravo alacremente per finire le illustrazioni in tempo per la stampa, né l’editore, né gli altri “genitori” mi hanno mai richiesto di raffigurare quel misterioso personaggio. Forse è meglio che esso rimanga così: una intelligenza eterea, priva di consistenza materiale che un po’ ricorda uno degli ultimi stadi evolutivi del computer Multivac protagonista del racconto di Isaac Asimov L’ultima domanda.
Giunto fin qui, non posso che sperare di non avervi annoiato con questo classico “amarcord” che potrebbe essere uscito dalla bocca di un nonno impegnato a intrattenere i nipotini.
Se sono riuscito a farvi leggere fin qui senza esservi apparso barboso me ne rallegro e, piuttosto che rischiare di diventarlo tra un secondo, abusando troppo della vostra pazienza, preferisco fermare momentaneamente il flusso dei ricordi.
Ho ancora molto da raccontarvi circa la genesi delle varie illustrazioni presenti in questo sito e prometto (qualcuno probabilmente penserà si tratti di una minaccia…) di farlo nelle prossime puntate.
A presto, Tremendi!
Angelo Adamo